(Vittoria Lìcari) L’opera più lunga di Giuseppe Verdi, la più problematica – sia per le numerose versioni, sia per la particolarità delle forme (o, per meglio dire, non forme) adottate dall’autore – ha inaugurato la stagione 2023/2024 del Teatro alla Scala.
Scorrendo la cronologia del teatro milanese, scopriamo che vi venne rappresentata per la prima volta il 25 marzo 1868 nella versione in cinque atti in italiano – il libretto originale in francese di Joseph Méry e Camille du Locle era stato tradotto da Achille de Lauzières – con il balletto della prima parigina del 1867. Il 10 gennaio 1884 Verdi stesso aveva curato la messa in scena della nuova versione in quattro atti – con la traduzione del libretto curata da Angelo Zanardini – che risulta la più rappresentata nelle successive stagioni, pur con qualche eccezione a favore della versione in cinque atti, ma senza balletto, che fu scelta da Arturo Toscanini nel 1926 e nel 1928, da Gabriele Santini nel 1960 e nel 1963, da Claudio Abbado nel 1977 e nel 1978 e, per ultimo, da Myung-Whun Chung nel 2017. Riccardo Chailly ha optato per la versione scaligera del 1884 di cui, stranamente, non esiste ancora l’edizione critica. La sua lettura è stata molto analitica, con grande attenzione alla cupezza della “tinta” generale e, nel contempo, ai momenti solistici degli strumenti che assumono valenza drammaturgica nell’introdurre e sottolineare le caratteristiche psicologiche dei personaggi, elemento che per Verdi era di vitale importanza, insieme all’intonazione della parola di cui, mediante la musica, esalta sia l’aspetto fonetico, sia quello semantico: non si dimentichi, infatti, che egli seguì con grande attenzione la traduzione dal francese. L’orchestra ha risposto magnificamente agli intenti interpretativi del direttore con assoli impeccabili dei fiati – ottoni in primis – sul pastoso e morbido fondale degli archi. Non uno, bensì quattro violoncelli introducevano la grande aria di Filippo, scelta giustificata da Chailly con l’assenza in partitura di indicazioni che lo vietino. Don Carlo è un’opera in cui il ruolo del coro è particolarmente interessante sin dall’inizio, quando ci introduce nei meandri più oscuri della vicenda, in quell’austero chiostro dove una cupa salmodia – inizio inusuale per un melodramma – evoca la presenza di Carlo V, il quale, pur se defunto, incombe sui suoi eredi fino a trasformarsi in una sorta di deus ex machina per lo scioglimento finale degli eventi. Sotto la guida di Alberto Malazzi il coro della Scala ha dimostrato, ancora una volta, di raggiungere livelli altissimi sul piano tecnico e drammaturgico.
Dei temi contenuti nella tragedia Don Karlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller erano indubbiamente quelli legati al dibattito politico a stimolare maggiormente Verdi nella ricerca di una sempre maggiore espressività della parola in musica. Se, a partire dalla “trilogia popolare”, le forme sempre più si assoggettano alle esigenze drammatiche, in Don Carlo il declamato assume una importanza decisiva nel rendere memorabili due pagine che, più che duetti, andrebbero definiti dialoghi in uno stile che sembra precorrere lo sprechgesang: quello fra Filippo e Posa, in cui sono perfettamente avvertibili le domande, le risposte, le frasi lasciate in sospeso, così come gli slanci melodici di Rodrigo, quando questi si accalora e si abbandona all’emozione; e quello fra Filippo e il Grande Inquisitore, dove la definizione drammaturgica di quest’ultimo è totalmente affidata alla sua vocalità perentoria, laddove invece il re, pur condividendone la corda di basso, viene percepito come depotenziato, e la sola concessione che Verdi gli riserva è quel grido di disperazione nell’estensione di due ottave – “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare!” – che il musicista, notoriamente non proprio amico del clero, doveva avvertire particolarmente vicina alla propria sensibilità.
Altra tematica cara a Verdi è quella dell’amicizia fraterna, che nel duetto fra Carlo e Posa s’intreccia con il dialogo di argomento politico e sui doveri di un futuro re, creando linee espressive che si contrappongono e si intrecciano.
Sul versante delle figure femminili, Elisabetta, depositaria di una forza morale e di un senso del dovere che rendono automaticamente impossibile l’amore con Carlo, si contrappone a Eboli, incarnazione della passione erotica. Diametralmente opposto è perciò anche il trattamento vocale dei due personaggi, nonostante siano simili sul piano dell’estensione. La regina passa quindi dal dolce e malinconico lirismo dell’aria del primo atto, alla sofferenza a stento trattenuta in “Tu che le vanità”, mentre Eboli, inizialmente frivola, in un crescendo di furore erotico arriva improvvisamente al ravvedimento, e il suo fuoco si scatena di nuovo, ma questa volta per una buona causa, la salvezza del suo amato Carlo. Poi, di colpo, ne perdiamo le tracce, la sua figura non è più funzionale al dramma.
Per quanto riguarda il protagonista, la sua vocalità è stata spesso oggetto di dibattito. Il primo interprete della versione del 1884 fu Francesco Tamagno, che tre anni dopo avrebbe creato il ruolo di Otello e il cui repertorio arrivò a comprendere tutti i maggiori personaggi verdiani – Ernani, Manrico, Alfredo, Gabriele Adorno, Riccardo, Don Alvaro, Radames – insieme a una vastità di ruoli in opere di altri autori, non solo italiani, diversissimi per le caratteristiche vocali richieste, tanto da farne uno straordinario esempio di eclettismo canoro. È pur vero che, essendo l’aria con cui Carlo si presenta sottolineata dal clarinetto, il personaggio appare, a una prima lettura, incline a una vocalità di stampo lirico, che ben si addice a un carattere piuttosto “amletico” qual è il suo: una personalità bipolare espressa in modo evidente nella linea musicale, molto acuta e conseguentemente difficile da sostenere, ma con molte mezze voci e dinamiche in piano, sonorità lunari e improvvise esplosioni di ribellione, come appare evidente nei duetti con Elisabetta. Una lettura, questa, che calza a pennello sullo stile di Francesco Meli e sulla sua voce di non eccezionale volume, ma molto ben educata e flessibile. Ottima l’intesa interpretativa con Luca Salsi (il Marchese di Posa), la cui prova è stata di altissimo livello, ma che molto può ancora contribuire all’approfondimento del ruolo. È stato, però, Michele Pertusi (Filippo II) fra tutti il più aderente alla intenzione verdiana di esprimere concetti e sentimenti attraverso l’evidenziazione di ogni singola parola, giungendo così a realizzare un declamato ricco di tensione emotiva e portatore di tutte le sfaccettature del personaggio, soprattutto nei momenti più interiormente intensi, come i duetti con Posa e con l’Inquisitore – il basso Jongmin Park, che ha ricoperto anche il ruolo del Frate – e la celebre aria, l’ultima composta da Verdi per la corda di basso.
Il ruolo di Elisabetta di Valois richiede che il timbro vocale esprima tutta la purezza e la bellezza interiore di una donna dall’anima travagliata. Non è pressoché necessario aggiungere alcun gesto scenico, se non in poche occasioni: l’azione sta nella voce, nelle sue dinamiche e nelle intenzioni interpretative che ne scaturiscono. Anna Netrebko risponde senza dubbio alle esigenze strettamente vocali, pur abusando delle risonanze di petto nella grande aria dell’ultimo atto, il che suona contraddittorio rispetto alle sfumature “ultraterrene” che, fino a quel momento, hanno caratterizzato la figura della regina. Ma l’intenzione interpretativa non si concretizza, non la si percepisce come si dovrebbe, rimane “congelata” all’interno della voce.
Elīna Garanča è stata una Eboli talmente perfetta in tutti i sensi da rendere difficile trovare parole per commentare la sua prestazione, perché qualsiasi aggettivo suonerebbe inutilmente ridondante.
Lo scenografo Daniel Bianco ha ideato una torre in alabastro – materiale molto usato in Spagna sia per l’architettura civile, sia per quella religiosa – che, ruotando, creava di volta in volta, in combinazione con una serie di cancellate (non tutte molto stabili, per la verità) ambienti più o meno ampi a seconda delle necessità sceniche del momento. Il regista Lluís Pasqual ha scelto di collocare sempre i personaggi a non più di sei metri dalla buca dell’orchestra per trasmettere al pubblico il senso dei drammi umani che stanno vivendo, decisione che ha senza dubbio un senso, soprattutto pensando alla musica da cui questi drammi vengono accompagnati e sottolineati. Meno condivisibile l’idea di trasformare la grandiosa scena dell’autodafè in un “dietro le quinte” del potere, così da sacrificare il magnifico retablo che tanto lavoro deve essere costato a chi lo ha materialmente realizzato, e che si può ammirare solo per pochissimi minuti. La presenza di una scena di massa al centro del dramma fa parte di un equilibrio visivo, oltre che drammaturgico, che la scelta di Pasqual altera sensibilmente. Lascia perplessi anche la soluzione adottata per l’accensione del rogo – che priva la scena di un ulteriore effetto visivo. Ben realizzato, invece, il rapimento finale di Carlo a opera del defunto avo Carlo V, evento di cui Verdi sottolinea la natura soprannaturale con un accordo dissonante.
I costumi di Franca Squarciapino sono stati ripresi dalla pittura coeva, ma non sono “storici” nel vero senso della parola, perché i tessuti e le fogge di quei tempi non permetterebbero agli attori di muoversi agevolmente in scena. Si è quindi deciso di realizzarli con altri materiali, e quindi i mantelli erano di seta – anziché di tessuti pesanti come si usava all’epoca – che svolazzavano per dare dinamicità ad alcuni personaggi, come, per esempio, a Don Carlo, mentre la gravità di Filippo era sottolineata da un mantello più pesante, e perciò meno mobile. La prevalenza del nero si rifaceva all’usanza presso la corte spagnola del tempo, non però, come si può pensare, in segno di austerità, ma perché il velluto di seta nero era molto costoso e costituiva, quindi, un inequivocabile simbolo di ricchezza.
A proposito di tinta – e chi conosce la produzione di Verdi sa quanto questo termine fosse per lui significativo – chi desiderasse avere un’idea di quella che pervadeva i luoghi e l’epoca in cui si svolsero i fatti – peraltro molto romanzati – descritti nel Don Carlo può visitare la mostra sul grande pittore El Greco (1541 – 1614) allestita, fino al 25 febbraio, al Palazzo Reale di Milano, a pochi passi dalla Scala