(Vittoria Licari) Dopo Médée di Luigi Cherubini, che lo scorso gennaio era approdata al Teatro alla Scala per la prima volta nella versione originale in lingua francese sotto la direzione di Michele Gamba, la stagione scaligera si è dipanata fra nuovi allestimenti e riprese. Fra i primi vanno annoverati il verdiano Simon Boccanegra, Guillaume Tell di Rossini – per la prima volta presentato nella versione originale francese – e La rondine di Giacomo Puccini.
Essendo una delle opere che più spesso vengono proposte alla Scala, Simon Boccanegra presenta dei termini di paragone da far tremare i polsi ai cantanti e ai direttori che lo affrontano, ma, soprattutto, ai registi, stante il segno indelebile lasciato dall’allestimento di Giorgio Strehler, con le scene e i costumi di Ezio Frigerio, che inaugurò la stagione 1971/1972, fu ripreso fino al 1988 e portato in tournée a Mosca, Londra, Washington e Tokyo. L’allestimento andato in scena in febbraio era di Daniele Abbado – figlio del grande Claudio, che per primo alzò la bacchetta sull’ormai storico spettacolo strehleriano – il quale firmava anche le scene, in collaborazione con Angelo Linzalata. Secondo il regista, i vuoti narrativi che costellano la trama del Boccanegra richiedono uno sforzo di immaginazione da parte degli spettatori, in un’opera che inizia con una morte – quella di Maria, onnipresente nel testo, ma il cui aspetto fisico è solo evocato dai ritratti che consentiranno l’agnizione di padre e figlia – e termina con un’altra morte, quella del protagonista. La vicenda inizia nell’oscurità della notte e termina ancora nel buio. Sola presenza viva è il mare, il suo respiro, continuamente richiamato nel testo e nella musica. In questo senso, ci si potrebbe chiedere se Simon Boccanegra non sia, in una certa misura, paragonabile a Peter Grimes. L’astratto contenitore ideato da Abbado non è parso molto favorevole alla proiezione vocale dei cantanti, che non sono stati aiutati nemmeno dalla direzione di Lorenzo Viotti, particolarmente avara di adeguate dinamiche. Ciò non ha impedito ai due migliori interpreti, Luca Salsi ed Eleonora Buratto, di dare il meglio raccogliendo un meritatissimo successo. Nel ruolo eponimo, Salsi si conferma interprete molto attento alle sfumature che contraddistinguono un personaggio agente su due piani differenti: quello pubblico, ammantato di autorevolezza, e quello personale, che va dalla disperazione per la morte della donna amata alla tenerezza nei confronti della figlia ritrovata. Eleonora Buratto dispiega la sua bellissima voce, ricca di armonici che raggiungono ogni angolo della sala, con rara perfezione tecnica – da lodare particolarmente la gestione delle note gravi, in modo che mai venga a mancare l’omogeneità della tessitura – e una rara emozionalità, nella voce e nel gesto, che arriva dritta al cuore del pubblico. Buone le prove del tenore Charles Castronovo (Gabriele Adorno) e del basso Andrea Pellegrini (Pietro). Roberto De Candia è stato un Paolo Albiani di gran lusso. Imbarazzante, purtroppo, la prestazione del basso Ain Anger nell’importantissimo ruolo di Jacopo Fiesco: voce rigida, interpretazione sfocata. Peccato. Pregevoli i costumi di Nanà Cecchi, collocati sull’ormai consueto crinale fra storico e cronologicamente neutro, ma comunque adeguati alla caratterizzazione dei personaggi.
Particolarmente attesa era la prima assoluta di Guillame Tell, ovvero della versione originale del Guglielmo Tell di Gioachino Rossini, rappresentato per la prima volta il 3 agosto 1829 al Théâtre de l’Académie Royale de Musique di Parigi, e composto su libretto in lingua francese di Étienne de Jouy e Hippolyte Bis. Michele Mariotti ha guidato solisti, coro e orchestra in una esecuzione superlativa, che ha voluto assolutamente integrale, per non togliere a questo grand-opéra la sua naturale fisionomia, e di cui ha inteso sottolineare il carattere preromantico – in un certo senso ‘beethoveniano’ – a partire dall’assolo del violoncello che dà inizio alla Ouverture, che Mariotti interpreta come una meditazione sulla fragilità umana, sul destino di un ‘non eroe’ che si vede costretto dalle circostanze a manifestare un eroismo a lui stesso ignoto. La direzione è stata davvero grandiosa, ricca di dinamiche e di colori raffinatissimi e di grande effetto, tempi brillanti, ma anche elastici, che consentivano sempre di percepire ogni minima sfumatura vocale e strumentale. Fedele alla propria convinzione che troppe variazioni melodiche ingenerino la sensazione che la musica sia, in un certo senso, ‘debole’, Mariotti ha prediletto, nelle ripetizioni, le variazioni dinamiche. Al termine dell’Ouverture, l’orchestra – le cui prime parti di celli, flauto e corno inglese erano state semplicemente magnifiche – si è ampiamente meritata una lunga ovazione. Strepitosa la prova del coro scaligero, diretto da Alberto Malazzi, sotto la cui guida questa già ottima compagine sta raggiungendo livelli sempre più alti. Seguendo una tradizione che risale a Prosper Dérivis – creatore dei ruoli verdiani di Zaccaria e Pagano – il ruolo eponimo, scritto originariamente per il baritono Henri-Bernard Dabadie, è stato affidato al basso Michele Pertusi, che ne ha dato una interpretazione vocalmente superlativa e di immensa profondità e ricchezza emotiva. L’artista ha magistralmente disegnato l’evoluzione personale e pubblica di un “eroe suo malgrado” che assurge a simbolo di un intero popolo. Di alto livello è stata tutta la numerosa compagnia di canto, a partire da Dmitry Korchak (Arnold) e Salome Jicia (Mathilde). L’esecuzione integrale ha ricondotto l’opera alla sua fisionomia drammaturgica originaria, consentendo di apprezzare pienamente ruoli che, a causa dei tagli, venivano solitamente resi marginali. È questo il caso di Hedwige, moglie di Guillame, qui interpretata da Géraldine Chauvet, il cui peso drammatico è paragonabile a quello di Mathilde, che insieme a lei e al figlio Jemmy – ruolo en travesti affidato a Catherine Trottmann – intona la toccante Prière che precede immediatamente il grandioso finale.
Non bisogna, però, dimenticare che il teatro musicale dovrebbe comportare che vista e udito collaborino strettamente alla decodificazione dell’opera d’arte, il che significa che, anche di fronte alle più spericolate letture registiche, la divaricazione fra i due sensi non superi un certo limite. In questo caso, purtroppo, ci si è trovati di fronte a una regia – a firma di Chiara Muti –estremamente criptica, che però cade poi in un didascalismo tutto sommato banale, come quando, per esempio, compare il fantasma di Melchtal (Evgeny Stavinsky), retrospettivamente crocefisso, con le tre spose nelle vesti di pie donne. Molto fastidiosa la luce emessa dagli schermi dei tablet – simboleggianti la vita virtuale in cui vegetano gli svizzeri oppressi da Gesler (Luca Tittoto) – che vengono finalmente gettati a terra quando, al grido “Aux armes!” si torna alla vita reale. Per capire il significato di tutto ciò bisogna però leggere con molta attenzione le quattro pagine all’interno del programma di sala in cui la regista spiega la sua personale lettura del dramma. Fra citazioni delle Carceri piranesiane, di Metropolis di Fritz Lang e del Settimo sigillo di Ingmar Bergman, le scene di Alessandro Camera e i costumi di Ursula Patzak descrivono il buio e lo squallore della vita degli oppressi. Le sole note di colore sono quelle che caratterizzano il regno del male e del vizio di Gesler. Interessanti e molto espressive, oltre a essere ottimamente eseguite dal corpo di ballo del teatro, le coreografie di Silvia Giordano.
La nuova edizione di La rondine di Giacomo Puccini diretta da Luciano Chailly, ha permesso di ascoltare una versione antecedente a quella rappresentata in prima assoluta al Grand Théâtre de Monte Carlo il 27 marzo 1917, che fu diretta da Gino Marinuzzi, con Gilda Dalla Rizza, Tito Schipa, Ines Maria Ferraris e Francesco Dominici. Cronologicamente situata fra La fanciulla del West e il Trittico, quest’opera non ha mai goduto di grande popolarità, del che l’autore si doleva. Frutto di una commissione del Carltheater di Vienna, avrebbe dovuto essere un’operetta – o, per meglio dire, un Singspiel – ovviamente in lingua tedesca (Die Schwalbe), il che avrebbe comportato la presenza di dialoghi parlati. Ma Puccini rifiutò di intraprendere questo tipo di lavoro, dichiarando che gli sarebbe piuttosto piaciuto scrivere un’opera in stile comico sul modello del Rosenkavalier di Richard Strauss, “ma più divertente e più organica”. Abbandonato, dunque, il progetto originario, con la collaborazione del commediografo Giuseppe Adami La rondine divenne un’opera a tutti gli effetti, una ‘commedia lirica’, per la precisione, su libretto in italiano. Nel frattempo, era scoppiata la Prima guerra mondiale e, in virtù della neutralità del principato di Monaco, la prima rappresentazione assoluta era appunto avvenuta a Montecarlo, mentre la prima italiana fu a Bologna il 2 giugno di quello stesso anno, e quella milanese il successivo 7 ottobre al Teatro Dal Verme.
La versione ascoltata ora alla Scala si basa sull’autografo della primissima versione, ritrovato alcuni anni fa fra i documenti in possesso di Simonetta Puccini, nipote del compositore e sua ultima discendente, e pubblicato nel 2023 da Ricordi nell’edizione critica curata dal musicologo britannico Ditlev Rindom, autore di un ampio saggio all’interno del programma di sala, che si rivela molto utile per capire le differenze fra questa prima versione e la cosiddetta “versione standard”, solitamente eseguita fino a oggi. Si notano importanti differenze, per esempio, in “un uso meno roboante delle percussioni (soprattutto dei timpani) […] che probabilmente riflette la prima destinazione del lavoro come operetta”, oltre a molte differenze nel tessuto orchestrale, nel fraseggio e nella dinamica, che dimostrano l’ampia sperimentazione che Puccini stava effettuando sul timbro orchestrale a fini drammaturgici. Rindom sottolinea, però, come siano “i ruoli principali a differenziarsi in modo più evidente dalla versione della Rondine che ci è più familiare e a rivelare che l’autografo offre la versione più radicalmente moderna dell’opera”. Una “modernità” che investe, quindi, non solo il piano strettamente musicale, rivelando l’approfondito studio da parte di Puccini degli autori a lui contemporanei (Stravinskij, Ravel, Richard Strauss). A trent’anni dall’ultima esecuzione scaligera, che era stata diretta da Gianandrea Gavazzeni, Riccardo Chailly ha dunque proposto questa rinnovata Rondine di cui è stata protagonista la bravissima Mariangela Sicilia, insieme a un’ottima compagnia di cantanti-attori i cui ruoli principali erano ricoperti da Rosalia Cid (Lisette), Matteo Lippi (Ruggero), Giovanni Sala (Prunier), Pietro Spagnoli (Rambaldo). Piacevole e colorata, la regia di Irina Brook ha reso la vicenda metateatrale osservandola attraverso lo sguardo di un personaggio d’invenzione, Anna, giovane coreografa in procinto di debuttare come regista d’opera. Come spesso avviene in questi casi, però, questa particolare visione non appare chiara allo spettatore, se non si leggono le note di regia all’interno del programma di sala. In ogni caso – ed è quello che conta – l’immediatezza del messaggio teatrale non risulta particolarmente alterata. Gradevoli e coloratissimi i costumi e le scene di Patrick Kinmonth.
Tre sono state le riprese in questa prima parte di stagione, a partire dallo storico e meraviglioso allestimento dell’Entführung aus dem Serail di Wolfgang Amadeus Mozart, per la regia di Giorgio Strehler, con scene e costumi di Luciano Damiani e alle luci, che in questo spettacolo sono più che mai importanti, il light designer scaligero Marco Filibeck. Thomas Guggeis ha splendidamente diretto una compagnia di primissimo ordine, a partire dalla sempre magnifica Jessica Pratt, perfetta nelle rutilanti colorature senza mai perdere calore e sentimento. Accanto a lei Jasmin Deles (Blonde), Daniel Behle (Belmonte), Michael Laurenz (Pedrillo), Peter Rose (Osmin), nonché Sven-Eric Bechtolf nel ruolo attoriale di Selim e lo straordinario Marco Merlini nei panni del servo muto, creatura strehleriana a tutto tondo.
La tradizionale accoppiata Cavalleria rusticana/Pagliacci è tornata alla Scala diretta dall’ottimo Giampaolo Bisanti, con l’indovinatissima regia di Mario Martone – ripresa da Federica Stefani – che ancora una volta dimostra come si possa innovare senza essere criptici, le scene di Sergio Tramonti, i costumi di Ursula Patzak e le luci di Pasquale Mari. In Cavalleria rusticana ha giganteggiato la Santuzza di Elīna Garanča, affiancata dall’ottima Lola di Francesca Di Sauro e da Elena Zilio, impegnata in uno straordinario “cameo” come Mamma Lucia. Unico punto debole – almeno parziale – il tenore Brian Jadge, dotato di una grande e bella voce, ma alquanto inespressivo e ignaro delle dinamiche, in particolare nel duetto con Alfio e nell’addio alla madre. Molto adatto al ruolo del rivale di Turiddu e, ancor più, a quello di Tonio in Pagliacci, si è rivelato Amatuvshin Enkhbat, il quale non si limita a fare sfoggio di una voce monumentale, ma scava nei caratteri riuscendo addirittura a evidenziare punti in comune fra personaggi tra loro apparentemente lontanissimi, come, in questo caso, Tonio e il wagneriano Alberich. Coro e orchestra al top.
Gradevolissimo il ritorno del donizettiano Don Pasquale, capolavoro di ironica leggerezza, messa qui in risalto dall’altrettanto ironica regia di Davide Livermore, con scene di lui stesso e di Giò Forma, costumi di Gianluca Falaschi, luci di Nicolas Bovey e i consueti video “livermoriani” a cura di D-WOK. Ne è stato protagonista perfetto Ambrogio Maestri, che guidava una compagnia di splendidi cantanti-attori: Mattia Olivieri (Malatesta), Lawrence Brownlee (Ernesto), Andrea Carroll (Norina) e Andrea Porta (un notaro), guidati da Evelino Pidò, punto di riferimento irrinunciabile per l’interpretazione delle opere di Donizetti.